»Diese Kämpfe müssen international sein«

Organisation Weapon Watch dokumentiert Umschlag von Rüstungsexporten in europäischen Häfen. Ein Gespräch mit Carlo Tombola

Martin Dolzer

Sie waren Teilnehmer einer Friedenskonferenz der Gewerkschaft Verdi in der vergangenen Woche in Hamburg. Worum ging es dabei?

Neben den vielen Bedeutungen der Konferenz ist besonders wichtig: Verdi organisiert fast zwei Millionen Beschäftigte in Deutschland, wendet sich entschieden gegen den Verkauf von Rüstungsgütern aus deutscher Produktion für den Einsatz in laufenden Kriegen, gegen die Auslandseinsätze der Bundeswehr und die Atomwaffenprogramme. Verdi unterstützt außerdem die Volksinitiative gegen Rüstungstransporte durch den Hamburger Hafen und ergreift Initiative, um die unmittelbar betroffenen Beschäftigten, die Hafenarbeiter, einzubeziehen.

Sie sind Vorsitzender der italienischen Organisation Weapon Watch. Was macht Ihre Organisation?

Weapon Watch ist eine Beobachtungsstelle, die Antikriegskämpfe mit neuen Instrumenten und Analysen unterstützt und Ziele für Protest- und Boykottaktionen vorschlägt. Diese Kämpfe müssen international sein, um zu gewinnen. Angesichts des Umschlags von Waffen in vielen Häfen in Europa kann der Kampf nicht auf einen einzigen Hafen beschränkt sein. Die Kriege, die jedes Jahr Tausende von Opfern fordern und dramatische Flüchtlingsströme verursachen, werden durch den zunehmenden Verkauf hochentwickelter Waffen angeheizt. Dieser Markt des Todes wird von den westlichen Industrieländern beherrscht, die mit der US-Politik verbunden sind. Er wird über Logistikketten privater Betreiber verwaltet. Eines unserer Instrumente ist der Atlas der Rüstungsindustrie, den wir in Hamburg vorgestellt haben: eine interaktive Karte, basierend auf einer Datenbank mit offenen Quellen. Bisher sind etwa 830 Punkte plaziert, darunter italienische Unternehmen, die Rüstungsgüter herstellen und exportieren oder am industriellen und kommerziellen Rüstungszyklus beteiligt sind. Das reicht von Bekleidung für die Streitkräfte bis zu gepanzerten Militärfahrzeugen, von Drohnen bis zu Fregatten, von Kommunikations- und Kontrollsystemen bis zu Hubschraubern, von Maschinenpistolen bis zu schwerer Munition.

Gibt es ähnliche Karten in anderen Ländern?

Es existieren ähnliche »Atlanten« von Organisationen wie der Campaign Against Arms Trade in Großbritannien, dem Centre Dèlas d’Estudis per la Pau in Barcelona, Vredesactie in Belgien sowie von der US-amerikanischen Quäkerorganisation AFSC für Israel. Auch in Deutschland gibt es einige regionale Rüstungsatlanten, die in den letzten Jahren von Die Linke veröffentlicht wurden.

In Italien wurden von Hafenarbeitern in mehreren Häfen Schiffe mit Waffen für Saudi-Arabien und Israel gestoppt.

In Genua gibt es seit über zwei Jahren Proteste gegen die Schiffe des saudischen Unternehmens Bahri, die etwa alle 20 Tage, wenn sie den Hafen passieren, erneut stattfinden. Sie kommen mit Waffen aller Art und Containern mit Munition an, die über Häfen in den USA und Kanada verschifft werden. Ähnliche Proteste wurden im Mai zeitgleich mit der israelischen Bombardierung des Gazastreifens auch in Livorno und Ravenna organisiert. Selten kam es zu einer Streikankündigung durch die Gewerkschaften, manchmal reichte die Streikdrohung aus, um die Transporte abzubrechen. Diese Ergebnisse hängen stark von den lokal aktiven Menschen ab, insbesondere von ihrer Fähigkeit, Gewerkschaftskämpfe um Löhne und Arbeitsplatzsicherheit mit diesem politischen Thema zu verbinden.

Wie kann die Bewegung langfristig erfolgreich sein?

Der Erfolg hängt sowohl von einer gründlichen Analyse der logistischen Ketten der Rüstung, aber auch von Bündnissen ab, die die Bewegung herstellen kann. Diese müssen zwischen verschiedenen kulturellen und ideologischen Sektoren der Gesellschaft, zwischen den Hafenrealitäten verschiedener Länder und Kontinente und zwischen Kriegsgegnern und organisierten Arbeitern hergestellt werden.


Lei ha partecipato la scorsa settimana ad Amburgo a una conferenza di pace organizzata dal sindacato Ver.di. Di cosa si trattava?

Oltre ai molteplici significati del convegno, ciò che è particolarmente importante è che Ver.di organizza in Germania quasi due milioni di dipendenti e si oppone fermamente alla vendita di armamenti di fabbricazione tedesca da impiegare nelle guerre in corso, agli schieramenti all’estero della Bundeswehr e ai programmi di armi nucleari. Ver.di sostiene anche l’iniziativa popolare contro i trasporti di armamenti attraverso il porto di Amburgo e prende l’iniziativa di coinvolgere i lavoratori direttamente interessati, i portuali.

Lei è il presidente dell’organizzazione italiana Weapon Watch. Cosa sta facendo la sua organizzazione?

Weapon Watch è un osservatorio che supporta le lotte contro la guerra con nuovi strumenti e analisi e propone obiettivi per azioni di protesta e boicottaggio. Queste lotte devono essere internazionali per vincere. Data la gestione delle armi in molti porti europei, la lotta non può essere confinata a un solo porto. Le guerre, che mietono migliaia di vite ogni anno e causano drammatici flussi di profughi, sono alimentate dalla crescente vendita di armi sofisticate. Questo mercato della morte è dominato dai paesi industrializzati occidentali legati alla politica statunitense. È gestito tramite catene logistiche di operatori privati. Uno dei nostri strumenti è l’Atlante dell’industria della difesa, che abbiamo presentato ad Amburgo: una mappa interattiva basata su un database opensource. Finora sono stati collocati circa 830 punti, tra aziende italiane che producono ed esportano armamenti o sono coinvolte nel ciclo industriale e commerciale degli armamenti. Si va dall’abbigliamento per le forze armate ai mezzi corazzati militari, dai droni alle fregate, dai sistemi di comunicazione e controllo agli elicotteri, dalle mitragliatrici alle munizioni pesanti.

Ci sono carte simili in altri paesi?

Simili “atlanti” sono stati pubblicati in rete da organizzazioni come la Campagna contro il commercio di armi (CAAT) in Gran Bretagna, il Centre Dèlas d’Estudis per la Pau a Barcellona, Vredesactie in Belgio e l’organizzazione quacchera statunitense AFSC per Israele. Anche in Germania esistono alcuni atlanti regionali sugli armamenti, pubblicati da Die Linke negli ultimi anni.

In Italia navi con armi destinate ad Arabia Saudita e Israele sono state fermate da lavoratori portuali in diversi porti.

A Genova ci sono da più di due anni proteste contro le navi della compagnia saudita Bahri, proteste che si ripetono circa ogni venti giorni, al passaggio di queste navi in porto. Arrivano cariche di blindati, carri armati, elicotteri, container di munizioni e bombe, caricati nei porti degli Stati Uniti e del Canada. Simili proteste sono state organizzate anche a Livorno e Ravenna a maggio, in concomitanza con il bombardamento israeliano della Striscia di Gaza. Raramente i sindacati dichiarano sciopero, a volte basta la minaccia di uno sciopero per fermare il trasporto. Questi risultati dipendono fortemente dalle persone attive a livello locale, in particolare dalla loro capacità di collegare le lotte sindacali per i salari e la sicurezza del lavoro a questa questione politica.

Come può il movimento avere successo a lungo termine?

Il successo dipende sia da un’analisi approfondita delle catene logistiche degli armamenti, sia dalle alleanze che il movimento può stringere. Bisogna contribuire a costruire alleanze tra diversi settori culturali e ideologici della società, tra le realtà portuali di diversi paesi e continenti, e tra lavoratori contro la guerra e lavoratori organizzati.