23 Mag il flusso continuo che alimenta le guerre contro i popoli
E’ ancora una volta l’analisi della logistica e del flusso delle merci a rendere trasparente quello che governi e imprese si affannano a nascondere. Attraverso i porti italiani ed europei le catene logistiche al servizio della guerra funzionano a pieno regime, e controlli preventivi semplicemente non vengono effettuati. Al massimo, come in questi giorni, la pressione dell’opinione pubblica e le proteste dei lavoratori potrebbero costringere a qualche chiarimento le autorità, che per ora tacciono.
Ancora una volta, la catena logistica più “tesa” è quella che porta le armi in Israele. Si ripete ciò che Sergio Finardi e un gruppo di ricercatori europei descrissero nel gennaio 2009 e a cui «il manifesto» diede spazio [vedi nel sito di Weapon Watch]. Questa volta la protesta collettiva è partita dai terminal portuali di Genova, di Livorno, di Napoli, di Ravenna, si è propagata fino ai porti sudafricani, è sostenuta ora da una delle maggiori organizzazioni internazionali dei docker.
Ricapitoliamo quel che oggi non possiamo più ignorare:
- al Genoa Port Terminal il 13 maggio un container con merci pericolose, che nei documenti di accompagnamento vengono definite “proiettili ad alta precisione”, è imbarcato con grande cautela su una nave portacontenitori, “Asiatic Island”, bandiera di Singapore, con destinazione Ashdod (Israele);
- la “Asiatic Island” è inserita in una linea regolare gestita da ZIM (la maggiore compagnia navale israeliana e una delle prime quindici al mondo) che, in direzione est, parte da Marsiglia-Fos, tocca Genova, Livorno, Napoli, e quindi raggiunge Israele. Preavvisati da Genova, i portuali di Livorno accolgono la nave in arrivo a mezzogiorno del 14 maggio con la dichiarazione che non avrebbero imbarcato armi e munizioni utilizzabili contro la popolazione palestinese. Sappiamo che a Livorno non vi erano merci di questo tipo, ma il comunicato dell’USB livornese spinge anche i portuali di Napoli allo stesso impegno di non caricare armi dirette in Israele;
- torniamo per un momento a ritroso nella rotta della “Asiatic Island” e di un’altra nave, la “Trouper”, che naviga sotto la bandiera di comodo di Madera, lungo la stessa linea gestita da ZIM. Ebbene a Genova ci segnalano che movimenti di container con merci pericolose dello stesso tipo (proiettili di piccolo e grosso calibro) diretti in Israele sono piuttosto frequenti. Siamo quindi in presenza di una supply chain “militarizzata”, del tutto analoga a quella resa celebre dalle navi saudite della compagnia Bahri, quelle al servizio della guerra in Yemen – altri civili sotto le bombe fabbricate in USA, UK, Germania, Italia – ma anche occasionalmente in Libia e in Siria;
- aggiungiamo un’altra tessera al puzzle: pochi giorni prima, esattamente il 6 maggio scorso, un comunicato del CALP di Genova, ben documentato ma ignorato dai media, ha rivelato che la compagnia Ignazio Messina – quella delle navi Jolly e della “Jolly Nero” che ha demolito la torre piloti a Genova – tra 2017 e 2020 ha portato da Marsiglia a Jeddah almeno 200 container, di cui circa la metà con “merci pericolose”, destinati al Ministero della Difesa e al Ministero della Guardia Nazionale del regno saudita. Tra i caricatori vi sono alcune delle società leader della possente industria militare francese: SOFRAME, che fabbrica in Alsazia veicoli blindati, in particolare i MPCV (Multi-purpose combat vehicle); Nexter, «leader della difesa terrestre in Francia e in Europa» (così sul suo sito web), che ha venduto cannoni Caesar e VBCI (véhicules blindés de combat d’infanterie) e proiettili d’artiglieria (anche prodotti in Italia da Simmel Difesa) per la guerra yemenita; MBDA, il consorzio europeo di cui Leonardo è uno dei tre soci e la cui filiale francese è fornitore diretto nei paesi del Golfo;
- ora guardiamo in avanti, ai primi giorni di giugno, quando nel porto di Ravenna sono attesi alcuni container descritti dai documenti di accompagnamento dello spedizioniere veneziano come “materiale bellico” destinato a Israele. In un porto come quello ravennate, che serve abitualmente le merci deperibili e i cargo fuori misura, l’arrivo di container scortati dalla polizia e rapidamente caricati a bordo è difficile da nascondere e non molto frequente. Come nei porti tirrenici, i lavoratori dei terminal e i soci della compagnia hanno preannunciato l’intenzione di no imbarcare quei carichi sulle due navi portacontenitori – entrambe abilitate “Hazardous A”, cioè al trasporto esplosivi – che ZIM gestisce sulla rotta adriatica per Israele, la “Asiatic Liberty” attesa il 3 giugno e di ritorno il 17 giugno, e la “Harrison” che arriverà il 27 maggio e poi ancora il 10 giugno.
La vigilanza e l’azione dei lavoratori organizzati è andata oltre le sigle sindacali: se a Genova e Livorno si è mossa l’USB, a Napoli è intervenuto SI Cobas e a Ravenna sono state le tre sigle di FILT, FIT e Uiltrasporti a preannunciare lo sciopero selettivo sul materiale bellico.
Non stupisce che contro la protesta dei lavoratori italiani sia sceso in campo il sindacato unico e di stato israeliano, Histadrut [sul ruolo di Histadrut vedi l’articolo di Chiara Cruciati e il suo libro con Michele Giorgio] e che allo sciopero selettivo dichiarato dai portuali italiani si sia opposto per ritorsione il blocco totale nel porto di Haifa di tutte le merci provenienti dall’Italia.
Tuttavia, dal nostro punto di vista, ci sembra che qualcosa di profondo stia cambiando nell’atteggiamento di chi è costretto a lavorare – a produrre e a trasportare – lungo le catene logistiche della guerra e della violazione dei diritti umani. Si sta affermando il diritto alla trasparenza, alla circolazione delle informazioni che riguardano le merci di guerra, le aziende che ne ricavano profitto, i funzionari che scaricano le proprie responsabilità, gli intermediari che si arricchiscono mentre minacciano i propri dipendenti di ritorcere su di loro le proteste collettive.