03 Set IL CASO DEI LEOPARD ITALIANI (O FORSE SVIZZERI… O TEDESCHI…)
Un servizio della Radiotelevisione della Svizzera Italiana (RSI) – dove lavorano alcuni tra i migliori giornalisti investigativi nella nostra lingua – ci racconta una nuova puntata dell’edificante vicenda dei Leopard, i carri armati tedeschi che (non) faranno vincere la guerra all’Ucraina. Ne abbiamo già accennato in un precedente articolo.
Nelle puntate precedenti abbiamo visto che il governo tedesco, partito – secondo gli americani – con colpevole ritardo nell’aiuto militare all’Ucraina, si è affannato a recuperare il tempo perduto destinando al paese invaso una pletora di armamenti, in parte prelevati dai propri magazzini militari e soprattutto da quelli delle industrie nazionali, in qualche caso persino ancora da produrre. Tra l’altro ha inviato 18 Leopard 2A6 della Bundeswehr e ha contribuito alle donazioni da parte di altri eserciti dotati di Leopard 2 (Polonia, Svezia, Portogallo, Finlandia, Spagna, Canada, Norvegia).
Poi è accaduto ciò che descrive il gen. Fabio Mini:
La Germania ha cannibalizzato il suo piccolo esercito di carri armati per dare i Leopard 2 all’Ucraina. Quei carri armati sono già in gran parte scomparsi. Sprecati per niente. La Germania non lo farà più. Lo stesso vale per il Regno Unito che ha cannibalizzato il suo minuscolo esercito di carri armati per fornire anche i Challenger. La Polonia si è spogliata dei carri armati disponibili per darli all’Ucraina. Neanche la Polonia ha più nulla da dare. [Fabio Mini, “Lo ‘stallo’ sul campo fa comodo a Putin e infetta l’Occidente”, in Il Fatto Quotidiano, 20.8.23]
Inghiottiti dalla guerra ucraina i carri più moderni, è diventato urgente recuperare anche quelli più vecchi, a cominciare dai Leopard 1, di cui l’Italia è stata insieme alla Germania il principale utilizzatore e co-produttore. Nel mondo rimangono in attività pochi esemplari di questo carro, prodotto dai primi anni Sessanta in molte versioni e aggiornamenti. Tra quelli dismessi, alcuni stock dei modelli più recenti sono stati acquistati da aziende private specializzate in “cannibalizzazione” e manutenzione, tra cui in Germania la nota FFG di Flensburg. Non sono mancate destinazioni più bizzarre. Nel marzo ’22 abbiamo dato notizia di un Leopard transitato per il porto di Genova che, dai documenti di accompagnamento, sembrava destinato al parco acquatico di Aqaba in Giordania, all’Underwater Military Museum Dive Site, dove i sub possono ammirare aerei e carri armati affondati nel reef corallino.
In Italia il Leopard ha una lunga storia, che parte dal 1971. L’Esercito ha ricevuto in tutto 920 Leopard 1A2, l’ultimo nel 2003, circa la metà fabbricati su licenza dalla OTO Melara di La Spezia. Nel 1995 si decise per 120 carri l’aggiornamento alla versione A5, con un costo che è stato tradotto in 534 milioni di euro attuali. Poi la progressiva dismissione, gli ultimi A5 sono stati ritirati dal servizio nel 2008. Ora tutto questo armamentario da guerra fredda è finito come rottame nel grande “cimitero” dei mezzi cingolati e corazzati di Lenta (Vercelli). Da qui uscirono nel 2016 un centinaio di Leopard 1A5, venduti da Agenzia Industrie Difesa, ente pubblico “commerciale” sotto il controllo del Ministero della difesa, a RUAG Holding con sede a Berna, azienda militar-tecnologica sotto controllo dello Stato svizzero, per un controvalore di 4,5 milioni di euro.
Sappiamo oggi che RUAG era intenzionata a rivendere questo materiale al Brasile, il maggior utilizzatore di Leopard 1 extraeuropeo.
Non se ne fece nulla, e nonostante l’impegno di RUAG a ritirare i Leopard entro un anno, i carri rimasero parcheggiati in un deposito a cielo aperto tra i comuni di Villesse e Romans d’Isonzo, in provincia di Gorizia, a poca distanza dallo stabilimento di Goriziane Group Spa, azienda specializzata anch’essa in manutenzione e ripristino di materiale militare a cui venne affidata la custodia dei Leopard, forse in vista di una prima revisione.
Poi è arrivata la guerra in Ucraina e la caccia all’usato garantito. La fibrillazione tra gli industriali del settore prese il via poche settimane dopo l’invasione russa. Nell’aprile del ’22 Rheinmetall – il colosso tedesco della difesa e delle munizioni – si dichiara pronta a ricondizionare cinquanta dei Leopard 1, e a consegnare il primo entro sei settimane. Nel febbraio 2023 il governo danese vorrebbe riacquistare una gran parte dei 99 Leopard 1A5 dismessi e venduti nel 2010 alla FFG, che potrebbe renderli efficienti in tre-sei mesi. Anche l’Olanda si offre di acquistare Leopard usati da spedire in Ucraina.
È proprio la smania di lucro scatenatasi come effetto secondario della guerra ucraina che ha fatto venire a galla quanto di poco trasparente nasconda il mancato affare dei Leopard “italiani”.
Da parte svizzera, come appurano i servizi della rtv di lingua italiana, nello scorso febbraio RUAG si muove per vendere i carri parcheggiati a Romans proprio a Rheinmetall, che ha intenzione di rivenderli al governo olandese. RUAG informa la SECO, la Segreteria di stato per l’economia elvetica, che subito si oppone alla vendita, visto il divieto di export di armi all’Ucraina introdotto dal governo svizzero sin dal marzo 2022, appena dopo l’inizio delle ostilità. Com’è noto, nella Confederazione il dibattito intorno alla guerra è stato molto acceso, Berna ha ricevuto molte pressioni perché si schierasse con decisione nel campo anti-russo, ma alla fine ha prevalso la posizione del mantenimento della neutralità storica.
RUAG però insiste, sottolineando che si tratta di materiale non efficiente e inadatto a impiego bellico, praticamente ferraglia, ma SECO rimane irremovibile, e così riferirà il governo federale in parlamento. Nel frattempo comunque RUAG ha firmato un contratto di vendita con Rheinmetall, senza attendere che il Consiglio federale si dichiari ufficialmente contrario alla vendita, come in effetti è avvenuto a fine giugno. Ora il ministro della Difesa Viola Amherd esige un’inchiesta esterna, ma lunedì scorso la CEO di RUAG Brigitte Beck si è già dimessa.
Anche da parte italiana qualcosa non torna. Mentre la vicenda giudiziaria continua ad alimentare le prime pagine dei media svizzeri, risulta sempre più chiaro che RUAG ha proceduto all’acquisto dei Leopard e alla successiva rivendita senza il beneplacito delle autorità di controllo federali. Dunque sembrerebbe che non sia stato rispettato un articolo della legge 185/1990, che consente le operazioni di trasferimento di armi «solo se effettuate con governi esteri o con imprese autorizzate dal governo del paese destinatario».
Il modo più semplice per aggirare questa norma è stato quello di considerare i Leopard come rottami di ferro, e non come armamenti, e neppure come parti di armamenti. In effetti, nelle relazioni annuali della Presidenza del consiglio non c’è nessuna richiesta di autorizzazione all’esportazione dei Leopard acquistati da RUAG e veduti da Agenzia Industrie Difesa, dal 2013 – anno in cui AID viene iscritta al Registro nazionale degli esportatori – al 2022, ultima relazione disponibile. Eppure in questi stessi anni AID ha chiesto e ottenuto autorizzazioni per esportare quasi sette milioni di pezzi di ricambio per Leopard 1 (alla Grecia, nel 2018), correttamente considerando che i pezzi di ricambio rendono efficiente un sistema d’arma, e quindi sono materiale militare. La stessa considerazione doveva valere per il centinaio di Leopard acquistati da RUAG per 45.000 euro l’uno, che oggi si potrebbero vendere a circa un milione di euro l’uno.
In effetti il contratto AID-RUAG è redatto come un contratto per materiale militare, con 4.760 voci tra cui decine di migliaia di pezzi di ricambio, dettagliati in 131 pagine di allegati.
Da rilevare infine che RUAG pagò in quattro rate presso la Banca UBAE, «l’Unione delle Banche Arabe ed Europee il cui azionista di maggioranza è la Libyan Foreign Bank – la ex cassaforte off-shore di Gheddafi, ora destinataria dei proventi petroliferi libici – che annovera tra gli azionisti di minoranza anche nomi di importanti imprese italiane», tra cui Unicredit, ENI, Intesa Sanpaolo e Telecom Italia. Abbiamo qui ripreso un brano del rapporto pubblicato nel 2020 da OPAL, l’Osservatorio permanente sulle armi leggere (OPAL), in cui l’ong bresciana notava che Banca UBAE era stata utilizzata in operazioni sull’estero assai poco lineari di AID, Allora come oggi, non c’è alcuna attinenza tra la specializzazione di Banca UBAE nel favorire gli scambi con il Nordafrica e il mondo arabo e il supporto bancario a operazioni di AID che si svolgono con la Svizzera, con SIngapore o Taiwan.
DA LEGGERE
Pubblicati e trasmessi da Radiotelevisione della Svizzera Italiana:
7.8.23 https://www.rsi.ch/news/svizzera/Brigitte-Beck-lascia-il-gruppo-RUAG-16450861.html
8.8.23 https://www.rsi.ch/news/svizzera/Le-ragioni-delle-dimissioni-di-Beck-16453936.html
9.8.23 https://www.rsi.ch/news/svizzera/RUAG-ecco-le-carte-mai-viste-sui-Leopard-1-16455916.html
21.8.23 https://www.rsi.ch/news/svizzera/RUAG-Amherd-commissiona-uninchiesta-esterna-16483933.html
23.8.23 https://www.rsi.ch/news/svizzera/Carri-armati-RUAG-indagini-in-Germania1-16489279.html
24.8.23 https://www.rsi.ch/news/svizzera/RUAG-le-prime-immagini-dei-Leopard-1-in-Italia-16489801.html
25.8.23 https://www.rsi.ch/news/svizzera/RUAG-la-Germania-vuole-i-suoi-panzer-16494940.html
27.8.23 https://www.rsi.ch/news/svizzera/RUAG-e-Leopard-emergono-nuovi-dettagli-16498054.html
Gianluca Di Feo, “Le grandi manovre per i 96 Leopard italiani finiti in mani svizzere”, la Repubblica, 14.5.23
“I 95 carri armati per l’Ucraina parcheggiati in Italia”, Wired, 29.08.2023