07 Ago Il Sudan, la Wagner e gli altri
Con questo articolo Federica Iezzi inizia la sua collaborazione con the Weapon Watch. Federica è giornalista freelance, medico chirurgo indipendente, in Sudan dal 2010.
Quello che presento qui è in parte ciò di cui sono stata testimone nella mia ultima missione come medico volontario a Khartum, tra aprile e maggio 2023.
A integrazione, ho raccolto materiale fotografico e testimonianze locali, completate con i dati di alcuni siti di geolocalizzazione; nonché dati tratti direttamente dal sito ufficiale delle Forze di Supporto Rapido, le Rapid Support Forces (d’ora in poi RSF), il gruppo paramilitare sudanese responsabile della ripresa della guerra dallo scorso 15 aprile.
Il conflitto è tuttora in corso. In circa cento giorni ha già causato, secondo fonti non ufficiali, tra 3.000 e 10.000 vittime. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, circa un milione di sudanesi è stato costretto a rifugiarsi oltre confine e altri tre milioni di persone hanno abbandonato le proprie case, soprattutto fuggendo dall’area della capitale Khartum.
Il ruolo dei mercenari – Decine di private military companies (PMC) operano in Africa, una delle aree di maggior presenza mercenaria dopo la fine delle guerre balcaniche e delle occupazioni di Iraq e Afghanistan. Mai scomparse, da un paio di decenni le PMC sono divenute un utile complemento alle forze armate governative, oltre che un ottimo affare per i propri manager e azionisti. Si dice che ce ne siano almeno cinquecento operative nel mondo.
La Convenzione internazionale dell’ONU contro il reclutamento, l’uso, il finanziamento e l’addestramento dei mercenari, è entrata in vigore nel 2001, finora ratificata da appena 46 Stati. L’Italia è stato il primo paese firmatario nel 1990, seguita nell’UE da soli altri cinque paesi (Germania, Romania, Polonia, Cipro e Belgio).
Anche se ormai si preferisce eufemisticamente chiamarli contractors, i mercenari dovrebbero essere considerati “combattenti fuorilegge”. Svolgono compiti diversi a seconda del committente che li arruola, e mantengono legami opachi con i servizi segreti e le strutture militari degli Stati. Certo, rappresentano uno degli aspetti meno controllabili della corsa alla “privatizzazione” della sicurezza e della guerra intrapresa dagli stati-nazione.
La compagnia di mercenari Gruppo Wagner è stata sino a oggi uno dei bracci operativi della Russia di Putin in molti paesi africani. Opera anche in Somalia, probabilmente dal 2017. Sul proprio canale Telegram, Wagner ha ammesso di avere inviato in Sudan a partire dal 2018 “istruttori militari” e personale di sicurezza per la società mineraria russa M Invest (che secondo fonti del Tesoro USA apparterebbe a Yevgeny Prigozhin, comandante-padrone della Wagner).
Le Rapid Support Forces, RSF, sono forze paramilitari sudanesi, principalmente composte dalle milizie Janjawid che hanno combattuto per conto del governo sudanese durante la guerra in Darfur, contro i gruppi ribelli del Movimento per la Liberazione del Sudan (Sudan Liberation Movement, SLM) e del Movimento Giustizia ed Uguaglianza (Justice and Equality Movement, JEM).
Terminato il loro impiego nel Darfur, migliaia di combattenti RSF hanno partecipato alla guerra in Yemen, e sono stati impiegati in Libia dal generale Haftar.
Rispondono al loro capo e fondatore, Mohamed Hamdan Dagalo (“Hemetti”). Sono implicate nella gestione delle correnti di migranti, nella “protezione” delle miniere aurifere e dei giacimenti petroliferi. Dal 2019 sono state anche protagoniste della dura repressione del governo di Khartum contro le proteste popolari.
In un articolo dell’agosto 2022, il sito Africa ExPress ha riferito di un viaggio compiuto da un “aereo di stato” per portare dodici funzionari italiani a Khartum, in una missione di sostegno alle RSF nel quadro della lotta alla migrazione clandestina..
Sono stati i mercenari di Dagalo, a metà aprile 2023, a ribellarsi al controllo delle SAF dando vita alla c.d. “battaglia di Khartum” e al conflitto armato tuttora in corso.
Le Sudanese Armed Forces (SAF) rappresentano l’esercito “regolare” guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, ex attaché militare in Cina, oggi governatore de facto del paese. Nell’ottobre 2021, Burhan e Dagalo orchestrarono un colpo di stato, ribaltando una fragile transizione al governo civile che era stata avviata dopo l’allontanamento, nel 2019, del presidente Omar al-Bashir, per trent’anni dittatore del Sudan.
Le tensioni tra i due gruppi armati sono sorte durante i negoziati per integrare le RSF nell’esercito governativo, come parte del piano di ripristino del governo civile. Si sono trasformate in cruento conflitto con l’arrivo dall’estero di nuove armi e finanziamenti per le RSF, e con la prospettiva dei lucrosi affari in vista..
Armi ai mercenari – Com’è noto, dopo essere stato per decenni sotto embargo militare, con l’indipendenza del Sudan del Sud (2011) anche il Sudan ha visto in gran parte rimosse le sanzioni internazionali. Nel maggio 2021 gli Stati Uniti hanno depennato il Sudan dalla lista dei paesi sponsor del terrorismo. Prudentemente, i paesi europei tra cui l’Italia mantengono tuttora il divieto assoluto di forniture militari – assistenza tecnica inclusa – nei confronti sia del Sudan che del Sudan del Sud.
La Russia di Putin, invece, nel febbraio 2023 – cioè poco prima che deflagrasse la “battaglia di Khartum tra SAF e RSF – ha annunciato la firma di un accordo venticinquennale per forniture militari in cambio della concessione di una base navale a Port Sudan, in una posizione chiave al centro del Mar Rosso.
E’ in questo quadro che recentemente fonti del governo americano (Office of Foreign Assets Control, del Dipartimento del Tesoro) hanno rivelato che il Gruppo Wagner sarebbe coinvolto nella fornitura di missili terra-aria MANPADS alle RSF (https://ofac.treasury.gov/sanctions-programs-and-country-information/sudan-and-darfur-sanctions). Secondo queste fonti, questo tipo di armamento rappresenterebbe una minaccia diretta agli equilibri militari nell’area, mettendo soprattutto in discussione la superiorità aerea delle SAF.
Questa superiorità – va ricordato – si basa soprattutto su aerei ed elicotteri di fabbricazione russa, molti dei quali effettivamente sono stati distrutti (per lo più a terra) proprio durante i combattimenti dello scorso aprile, secondo informazioni non verificate del sito opensource olandese Oryxspioenkop.
La catena logistica di Wagner – In effetti, poco prima e anche nei giorni degli scontri di Khartum, si sono notati movimenti aerei più intensi tra una base aerea considerata sotto il controllo delle RSF e gli hubs logistici nei paesi confinanti da cui passano i rifornimenti russi alla Wagner.
Il 17 aprile 2023 un Ilyushin Il-76 è partito dall’aeroporto di Bangui-M’Poko, in Repubblica Centrafricana, e avrebbe consegnato armi per le RSF a Camp Chevrolet, una delle basi militari logistiche più importanti per le forze del generale Dagalo, situata nell’area di Karab al-Tom, vicino al confine libico. Secondo i servizi di intelligence statunitensi e francesi, la fornitura sarebbe stata organizzata dal gruppo Wagner, e consisteva in fucili d’assalto AK-47 e sistemi di difesa aerea portatili MANPADS.
In effetti abbiamo geolocalizzato l’Ilyushin Il-76, identificativo TL-KPA, sulla pista dell’aeroporto di Bangui alle ore 6:16PM del 7 giugno 2023.
Si tratta di un aereo comunemente attribuito al servizio del Gruppo Wagner e dei suoi movimenti in Africa, che ha cambiato più volte tail number: nel 2019 volava per la compagnia bielorussa Trans Avia Export Cargo Airlines come EW-510TH, nel marzo 2021 è visto come TL-ART a Bengasi, Libia, e in autunno a Bangui, e ancora nella capitale centrafricana come TL-KMZ.
Dal 13 aprile fino almeno al 19 aprile l’Ilyushin ha fatto la spola tra l’aeroporto di Latakia, città siriana sede di una rilevante base aeronavale russa, e le due più importanti basi aeree sotto il controllo del generale libico Haftar: l’aeroporto di al-Khadim, 70 chilometri a sud della città libica di al-Marj; e quello di Jufra nella regione del Fezzan.
Sia il leader del gruppo Wagner, Yevgeny Prigozhin, sia il portavoce delle RSF hanno negato ogni reciproco rapporto. Tuttavia il ministro degli esteri russo, Sergey Lavrov, durante la controversa conferenza stampa delle Nazioni Unite del 25 aprile scorso, ha affermato che il Sudan ha il diritto di utilizzare i servizi della compagnia privata Wagner (https://media.un.org/en/asset/k1k/k1k63d406h).
I missili terra-aria – Come tutti i conflitti in corso in Africa, anche quello riesploso in Sudan è alimentato dalle forniture di armi di diverse provenienze, puntualmente giunte in un paese che da decenni patisce la guerra endemica.
Qui non avrebbero mai dovuto arrivare i Kalashnikov, i lanciarazzi RPG, i cannoni antiaereo da 23mm ZU-23, le montagne di munizioni, le colonne di pickup Toyota… Da anni il Sudan è un vero bazar di armi, che alimenta la violenza e l’insicurezza interna così come quella di altre regioni in guerra.
Prendiamo una categoria assai pericolosa di armi, i lanciamissili terra-aria, armi portatili e perciò facilmente trasportabili ma capaci di abbattere un aereo in volo. Quelli di fabbricazione cinese erano arrivati già nel 2013, HN-6 o anche FN-6 “Hongying-6”. Una presunta versione sudanese “Nayzak” si dice sia stata venduta al Qatar e da questi alle milizie siriane anti-Assad (https://www.nytimes.com/2013/08/13/world/africa/arms-shipments-seen-from-sudan-to-syria-rebels.html).
Immagini della “battaglia di Khartum” mostrano MANPADS del tipo FN-6 nelle mani delle RSF all’assalto del Palazzo presidenziale.
Armi dagli Emirati – Le bombe termobariche, o bombe “a vuoto”, sfruttano l’alta temperatura e il vuoto di pressione per creare un effetto “palla di fuoco”, simile a quello creatosi nell’incidente ferroviario di Viareggio del 2009.
Ne circolano molte anche in Sudan, sotto forma di bombe da mortaio da 120 mm. Quelle ritrovate e fotografate a Khartum nello scorso aprile hanno nome e indirizzo: sono state fabbricate in Serbia dalla Yugoimport-SDPR, con sede a Belgrado, azienda di stato creata nel 1949 da Tito. Fanno parte di un lotto consegnato nel 2020 alle forze armate degli Emirati Arabi Uniti.
Gli emiri di Abu Dhabi sono, infatti, altri importanti attori della guerra endemica sudanese, in cui sono coinvolti a fianco di Dagalo per marcare la distanza rispetto al grande ex alleato, l’Arabia Saudita che sostiene Burhan.
Oltre alle considerazioni geopolitiche (il Sudan come “ponte” interafricano) ed economiche (il Sudan come promettente fornitore di materie prime), gli emiri temono la leadership saudita sul mondo arabo e in particolare il ruolo di mediatore che sta assumendo il principe bin Salman, e ne vogliono “disturbare” la centralità creando un’altra “Libia” ingovernabile in mano ai signori della guerra.
Al di là della competizione per l’egemonia tra Mar Rosso e Golfo persico, per il momento gli Emirati Arabi hanno trovato nel conflitto saudita un mercato per testare i prodotti della loro nascente industria militare.
Per le strade di Khartum, infatti, si sono confrontati i blindati da trasporto truppe Ajban prodotti da NIMR e i veicoli anti-mine Calidus MCAV-20, che a quanto sembra sono nelle mani tanto delle RSF che delle SAF.
L'”aiuto” emiratino ai mercenari di Dagalo risale almeno al 2019, quando giunsero nel paese più di un migliaio di pick-up Toyota Hilux e Land Cruiser, poi convertiti in veicoli militari dotati di mitragliatrici pesanti. Allo stesso periodo risalgono le massicce consegne di fucili d’assalto (M05 prodotti dalla serba Zastava, e G3A3 e G3A4 prodotti dalla tedesca Heckler & Koch).
Un fiume di denaro – Abbiamo avuto accesso al database che riporta i movimenti sul conto intestato alle RSF presso la First Abu Dhabi Bank. Il denaro è transitato sul conto della società Tradive General Trading LLC , peraltro ufficialmente nella black list del Tesoro americano (//home.treasury.gov/news/press-releases/jy1514) presso l’El Nilein Bank, l’una e l’altra con sede legale ad Abu Dhabi.
A partire dalla prima metà del 2019, la milizia avrebbe ricevuto oltre 150 milioni di Dirham (40 milioni di dollari) “per supporto tecnico” da una fonte sconosciuta, e avrebbe utilizzato oltre 111 milioni di Dirham (30 milioni di dollari) per acquistare veicoli e apparecchiature di comunicazione.
I dati sono confermati dai documenti relativi alla spedizione dei veicoli dagli Emirati Arabi Uniti al Sudan. Per viaggiare da Jeddah al porto sudanese di Sawakin (Osman Digna Port), i pick-up Toyota sono stati caricati su due traghetti gestiti dal Red Sea Service Center, una piccola agenzia con sede a Jeddah.
Entrambe le navi sono vecchi ro-ro.
Uno portava il nome di un quartiere residenziale di Dubai, «Al Karama» (IMO 8708610), 7.300 t di stazza, varato come «Fenicia» nel 1989 dall’Adriatica di Navigazione. Oggi, dopo diversi passaggi di proprietà, nome e bandiera («Egyptian Dignity», «Banyas 3», «Nabiha Bride», «Allouf»), opera nel Mar Nero come «Zubeyde» sotto bandiera panamense, nel collegamento tra Samsun (Turchia) e Tuapse (Russia).
Destino analogo per il traghetto «Med Link» (IMO 7928160), 5.500 t, allora sotto bandiera libanese e di proprietà della Med Star Shipping CO. S.A. di Tripoli, oggi ancora in circolazione come «Sampiyon Trabzonspor» per il registro del Camerun, sulla tratta Samsun-Novorossiysk. Varata da un cantiere danese nel 1981, ha cambiato almeno una decina di armatori e collezionato una cinquantina di ispezioni sullo stato della manutenzione.
Una volta sbarcati in Sudan, i pick-up delle RSF hanno proseguito su bisarche, in colonne che non sono sfuggite alle immagini satellitari.