27 Giu «È cominciata la pacchia». Italia sempre più coinvolta nel traffico di armi
L’opacità dei dati ufficiali non nasconde il forte aumento dell’export di armi italiane – La Presidenza del Consiglio non ha ancora pubblicato la Relazione annuale 2023 relativa all’esportazione di armamenti, che secondo la legge 185 del 1990 deve essere presentata al Parlamento entro il 31 marzo di ogni anno.
Tuttavia, “anticipazioni” dei dati che saranno contenuti nella relazione sono arrivate alla stampa già negli scorsi mesi.
Ha iniziato Carlo Tecce su «l’Espresso» con due articoli. Il titolo del primo articolo è eloquente: “Boom di armi italiane: oltre 5 miliardi nel ‘22. Primo cliente la Turchia. Il ritorno dei sauditi”. L’export 2022 è stato precisamente di 5,3 miliardi, contro i 4,6 del 2021. (+13,5% in un anno), e ancor più sono aumentate le importazioni (+7% in un anno ma +238% nell’ultimo triennio), segno di un ruolo meno manifatturiero e più commerciale ricoperto dall’Italia nel mercato internazionale degli armamenti.
Tutte le voci sono peraltro in fortissimo aumento, le licenze globali di progetto (+31%) così come le intermediazioni finanziarie (cioè il coinvolgimento del sistema bancario: +337%). Cambia anche la geografia degli scambi, i tre principali clienti delle aziende italiane sono tre paesi NATO (Turchia, Stati Uniti, Germania), al quarto posto troviamo un “vecchio” cliente come il Qatar, al quinto uno “nuovo”, Singapore, uno degli avamposti dell’Occidente nel Far East.
In un secondo articolo si precisano le tipologie di armi esportate, quelle che valgono di più per la bilancia commerciale: gli elicotteri Leonardo AW129, gli autocarri militari di Iveco Defence Vehicles, siluri e missili di MBDA Italia, filiale del gruppo controllato da Airbus con BAE Systems. Riassumendo, al vertice dell’industria militare nazionale si trovano un’azienda controllata dallo stato, una controllata da una holding olandese, e una joint-venture europea con una quota di minoranza in mani italiane.
Pochi giorni dopo «il Fatto Quotidiano» ha dedicato una doppia pagina all’analisi di una Relazione 2023 che continua a non essere pubblica. Tra i molti approfondimenti, si rileva il ruolo di punta di tre banche (UniCredit, Intesa Sanpaolo, Deutsche Bank), a cui si deve il 76% delle transazioni finanziarie relative al commercio di armamenti. Viene anche notato che nel 2022 l’Agenzia delle dogane registra un massimo storico nella consegna effettiva degli armamenti, segnale che si stanno concludendo le grandi commesse acquisite dall’industria italiana a partire dal 2014.
Progressivamente i governi Draghi e Meloni hanno tolto tutte le restrizioni commerciali riguardanti i paesi arabi coinvolti in guerre d’aggressione e in gravi violazioni umanitarie. Le violazioni della legge 185 non si contano più, ma il fatto grave è che siano proprio i governi della Repubblica a violare platealmente la legge.
Armi italiane vendute a uno dei paesi meno democratici al mondo – Secondo il Democracy Index dell’«Economist», il Turkmenistan – paese centrasiatico molto più grande dell’Italia ma con appena 6 milioni di abitanti – si situa in fondo alla classifica mondiale, appena prima di dittature conclamate come Birmania, Siria e Corea del Nord.
E’ considerato pessimo sotto l’aspetto della libertà di espressione e dei diritti civili (l’omosessualità è un reato penale), insufficiente nella separazione e autonomia dei poteri, di fatto privo di pluralismo elettorale: il suo presidente Gurbanguly Berdimuhamedow è ininterrottamente al potere da 17 anni, oggetto di un culto della personalità che comporta lo studio obbligatorio delle sue teorie nazional-folcloristiche. In politica estera, mantiene una precaria neutralità politica quale stato esterno ma “associato” alla Comunità degli stati indipendenti sotto l’ombrello russo (sul Turkmenistan, vedi l’articolo di «Internazionale» pubblicato nel febbraio 2019 e quello più recente di Giovanna Visco sul blog Mari terre merci).
Nonostante questi numerosi elementi negativi, le grandi aziende italiane della difesa non hanno rinunciato a fare affari con il regime autocratico di Berdimuhamedow. In particolare partecipano al programma di ammodernamento della flotta navale del Caspio.
Nel cantiere della base navale di Turkmenbashi (così Krasnovodsk è stata ribattezzata nel 1993, nel nome del dittatore-fondatore Nyyazow, “padre di tutti i turkmeni”) si stanno realizzando in collaborazione con industrie turche le nuove corvette della classe Deniz Han. Per l’armamento sono stati scelti i sistemi di fabbricazione italiana: sistemi antiaerei MBDA Mica, sistemi missilistici anti-nave MBDA Otomat Mk 2 e cannoni super rapidi Leonardo (gli OTO Melara 76/62). Sotto i governi Berlusconi il gruppo Beretta aveva già venduto al Turkmenistan migliaia di pistole e fucili d’assalto [nella foto di apertura, soldati turkmeni equipaggiati con i fucili d’assalto Beretta ARX-160] e Leonardo-Finmeccanica elicotteri EH101 e AW139, oltre a cannoni del complesso binato navale 40/70 compatto della OTO Melara.
Ora (lo abbiamo riferito in un precedente articolo) altre armi e munizioni italiane stanno raggiungendo Turkmenbashi/Krasnovodsk proprio partendo dall’aeroporto di Montichiari, come hanno segnalato gli stessi lavoratori dello scalo bresciano.
I migranti, “nuovo petrolio” per le armi – La stampa ha dato ampio spazio alle frenetiche “missioni” dei politici italiani ed europei in Tunisia, presso il presidente-dittatore Kais Saied: Gentiloni in marzo, Tajani in aprile, Giorgia Meloni ben due volte in una settimana in giugno, la seconda in compagnia di Ursula von der Leyen e del primo ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte.
Sul tavolo della trattativa ci sono aiuti economici ingenti, Saied sta alzando le richieste, ora si parla di tre miliardi di euro. In cambio le autorità tunisine si dovrebbero far carico della lotta contro gli sbarchi dei migranti sulle coste europee.
Si ripete lo schema di sempre: armi e denaro in cambio di sicurezza per un’Europa sempre più debole e frammentata. È lo stesso schema adottato e fallito con le fazioni che si spartiscono la Libia dal 2011, e che peraltro venne adottato ai tempi di Gheddafi. Tra 2006 e 2011 la Libia acquistò un fiume di armi provenienti dall’Italia – con cui firmò nel 2008 un trattato di cooperazione e amicizia – ma ancor più da Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia. Allora erano i dollari del petrolio che ritornavano in parte a chi li aveva sborsati. Oggi sono i migranti in fuga a rappresentare il “nuovo petrolio” su cui i dittatori di oggi fondano la loro permanenza al potere.
L’Italia meloniana spera di essere ben piazzata per rifornire Tunisi di armi moderne.
Per ora, in attesa di più lucrosi affari, proseguono con lentezza le consegne della mega-commessa ottenuta da Iveco Defence Vehicles (IDV) di Bolzano alcuni anni fa per cinquecento camion 4×4 e 6×6 dell’esercito tunisino (vedi le foto qui a fianco).
Oltre a queste, si registrano consegne di routine da parte di Simmel Difesa di Colleferro (RM) per colpi da cannone cal. 105/51; e le forniture per piccoli importi di jammer anti-drone di una piccola azienda romana, la CPM Elettronica. Il gruppo Beretta ha per ora sondato il mercato militare tunisino solo con una fornitura campione di fucili Benelli M4, largamente impiegati dalle forze speciali in funzione antisommossa.
Profitti di guerra – È stato pubblicato il bilancio consolidato 2022 di Beretta Holding. Il gruppo, che soltanto due anni fa (2020) aveva un fatturato consolidato di 810 milioni di euro, oggi dichiara 1.400 milioni di euro, +72% in due anni.
È un risultato eccezionale, tanto più perché avvenuto prima del consolidamento del gruppo svizzero RUAG Ammotec, acquisito nel marzo 2022, il maggior produttore di munizioni leggere d’Europa nonché fornitore ufficiale delle forze armate di Svizzera e Germania, con 5 impianti produttivi in Europa e USA e 2.700 dipendenti.
Ora il gruppo Beretta, controllato da due holding con sede in Lussemburgo, può contare sul 6.500 dipendenti complessivi. Nell’ultimo anno il fatturato in Italia è cresciuto del 30%. Da sottolineare che per la prima volta il settore militare ha superato la quota del 20% del fatturato, anche grazie al mercato interno, con un contratto pluriennale con l’esercito italiano e un’importante fornitura di prodotti all’Arma dei Carabinieri.