L’EUROPA CHE RESISTE ALLA GUERRA

Qualche tessera del mosaico guerrafondaio comincia a mancare, non solo per calcolo economico (in tempo di pace si fanno più affari, in tempo di guerra solo alcuni fanno affari giganteschi).

Qua e là qualche voce si alza a ripetere che nessuna pace si è mai ottenuta con massicci invii di armamenti nelle zone del conflitto. Qualche generale, qualche esperto di geopolitica, qualche storico ci ricordano che la guerra ucraina sta ripetendo a scala maggiore il “modello iugoslavo”, cioè quello delle guerre del periodo 1991-2001 che portarono alla dissoluzione della Iugoslavia. Allora ci si trovava di fronte a un bivio: ricostruire un’entità sovranazionale capace di ricomporre le divisioni di lingua, religione, economia; oppure scegliere la strada delle “micronazioni felici” tributarie di paesi o potenze più grandi.

Oggi si sta ponendo mano alla disgregazione dello spazio sovranazionale dell’Unione Europea, a cui i paesi dell’Europa orientale – in gran parte micronazioni – si erano aggregati quale garante della loro “felicità” liberale. L’euro, l’integrazione commerciale, la libertà di circolazione, gli scambi culturali sono conquiste già messe in discussione dalla pressione dei profughi-migranti, a sua volta causata da guerre vicine ma non europee e dall’intrinseca debolezza demografica del Vecchio Continente. Brexit indica la strada che il personale politico di ogni paese sa essere la più gratificante, l’adesione totale alla pax americana, a qualunque prezzo.

Carri armati M1 Abrams fotografati a Genova il 12 aprile 2022 a bordo della nave saudita «Bahri Jeddah».

Chi in questa Europa è stato spinto via via ai margini sono i milioni di lavoratori senza diritti, gli immigrati, i precari, i giovani, a cui la libera circolazione tra le frontiere ha consentito di cercare qui e là qualche vantaggio esistenziale: un lavoro meglio pagato, un’abitazione meno cara, i servizi sociali più generosi, l’assistenza medica migliore ecc. In cambio, nessun diritto e nessuna ribellione.

Ora la guerra. Per il momento poche voci contrarie all’escalation. Su tutte quella inascoltata di papa Francesco. Ma c’è qualche esempio che sta facendo il giro d’Europa. Non solo i portuali genovesi, che da tre anni stanno protestando contro il tradimento della Costituzione, delle leggi nazionali e dei trattati internazionali, un tradimento che permette al governo italiano di partecipare indirettamente a tutte le più sanguinose guerre in corso, e a tutte quelle che si preparano. Così il nostro paese sta diventando la più comoda piattaforma per il trasferimento di armi.

Ci sono anche i lavoratori dell’aeroporto di Pisa, che si sono fermati quando si sono accorti che stavano caricando su un aereo ucraino non “aiuti umanitari” bensì armi. E ci sono anche i ferrovieri di Salonicco che la compagnia TrainOSE – controllata al 100% dal Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane – voleva trasferire ad Alessandropoli per destinarli al servizio della logistica NATO, e che si sono rifiutati di trasportare i tank americani in Bulgaria.

Luglio 2021, carri armati M1 Abrams e materiale militare USA nel porto di Alessandropoli (Grecia settentrionale), pronti ad essere inviati per ferrovia verso Bulgaria e Romania.

Il 31 marzo a Genova, l’Unione sindacale di base USB ha dichiarato uno sciopero di 24 ore contro le “navi della morte”. Ancora da Genova un forte plauso ad azioni concrete contro la guerra è venuto dalla ‘marcia della pace’ del 2 aprile, che ha visto la presenza di due vescovi e il sostegno di un forte messaggio della Conferenza Episcopale Italiana, oltre che di un largo schieramento di associazioni laiche e religiose. Per il momento gli unici rappresentanti politici a raccogliere queste voci di protesta e obiezione sono le parlamentari italiane di ManifestA, che il 14 aprile scorso hanno presentato un’interpellanza al ministro degli Esteri; e i parlamentari europei di The Left, tra cui la deputata Özlem Alev Demirel (Die Linke) che ha inviato un suo messaggio di solidarietà agli scioperanti genovesi del 31 marzo.