07 Ott Perché una riunione a Genova
Il caso della nave saudita «Bahri Yanbu» ha fatto il giro del mondo. Non deve sorprendere, perché il sistema dei media ha poche occasioni per toccare temi di economia politica, e ancor meno per raccontare come si possono ostacolare i potenti della Terra.
I fatti
Nella seconda settimana di maggio 2019, il porto francese di Le Havre inizia un’azione di protesta prima ancora che la «Bahri Yanbu» si avvicini alle banchine, sull’onda di un rapporto segreto dei servizi d’informazione militari francesi reso pubblico qualche settimana prima da Disclose. Nel rapporto è svelato il coinvolgimento di armi di produzione francese nella guerra in Yemen, in particolare cannoni semoventi Caesar. Si stima che il produttore Nexter abbia avuto ordinativi per 180 Caesar complessivi, in parte già consegnati, altri otto dovrebbero esser imbarcati proprio a Le Havre. Associazioni francesi per i diritti umani e ong come Amnesty, Oxfam, Greenpeace, si mobilitano e ottengono l’appoggio di qualche parlamentare e dei lavoratori portuali.
La nave, dopo una lunga attesa alla fonda, decide di non attraccare a Le Havre e fa uno scalo non previsto nel porto spagnolo di Santander, dove imbarca carichi militari. Quindi si dirige verso Genova, dove al terminal GMT avrebbe dovuto caricare, tra l’altro, anche generatori e shelter destinati alla Guardia nazionale saudita. La società fabbricante, Teknel di Roma, aveva ottenuto l’autorizzazione a esportare questo materiale in base alla legge che regola l’export militare italiano.
A Genova si è verificata – su questo punto, cioè sulla natura militare di quel carico – una forte concordia per rifiutarne l’imbarco tra organizzazioni per i diritti umani, sindacati, lavoratori del porto, concordia di cui hanno dovuto tener conto anche le autorità, nonché gli eletti locali (si vedano le due mozioni di sostegno votate dal Consiglio comunale di Genova e dal Consiglio regionale ligure). Per la stessa ragione i materiali non sono stati caricati neppure su un’altra nave della compagnia Bahri, giunta a Genova un mese più tardi: al preannuncio di uno sciopero ad hoc, la merce ha preso un’altra destinazione.
Il quadro globale
Le con-ro ships della compagnia saudita Bahri sono da anni impegnate al servizio di un gigantesco trasferimento di armamenti dall’Occidente, dagli Stati Uniti innanzitutto, ma con grande partecipazione degli alleati europei. L’Arabia Saudita è il maggior buyer di armi del pianeta da quando ha vissuto il trauma dell’invasione irachena del Kuwait e delle successive due guerre del Golfo. Oggi è impegnata direttamente nella guerra in Yemen, uno dei tanti tasselli dello scontro egemonico con l’Iran, ma la militarizzazione risponde a un multiplo disegno: oltre a raggiungere il ruolo di potenza regionale (insieme a Turchia, Iran e Israele), anche recuperare credibilità nel disegno globale americano (come alleato fidato) e rafforzare la leadership come maggior esportatore mondiale di petrolio.
D’altra parte, proprio sulla guerra in Yemen si sono registrate prese di posizione dei governi e dei parlamenti d’Occidente molto critiche nei confronti del Regno saudita e degli Emirati Arabi Uniti: del Parlamento europeo in ottobre; di Germania, Finlandia, Paesi Bassi, Danimarca in novembre, con sospensione dell’invio di armi; in marzo la Germania estende l’embargo per altri sei mesi; in giugno, in Belgio il Consiglio di stato revoca alcune licenze d’esportazione concesse dalla Regione vallona; in luglio anche il governo italiano si è pronunciato per un blocco alle esportazioni militari verso l’Arabia Saudita. Al di là dell’efficacia di queste misure, si tratta di qualcosa di mai visto, governi di paesi forti esportatori che mettono in discussione gli ordini già acquisiti con il maggior cliente della propria industria della difesa! Tanto che persino il Congresso USA cerca di fermare l’amministrazione Trump, intenzionata a gonfiare di armi gli arsenali sauditi.
Una nota a margine: negli USA e nell’Europa del nord il caso Khashoggi compare sempre accanto alla guerra yemenita come elemento per valutare negativamente l’opportunità di vendere armi ai sauditi, mentre in Italia non se ne parla più, così come si sono spenti i riflettori sul caso Regeni.
Imparare dalla logistica: ciò che è lontano e frammentato, va avvicinato e ricomposto
Ritorniamo alle navi Bahri, e precisamente alla flotta delle sei con/ro della compagnia (nazionale) saudita, in Italia gestite dall’agenzia marittima Delta (gruppo Gastaldi). Compiono tutte un servizio regolare tra Stati Uniti e Arabia Saudita/Emirati. Un porto come Genova è toccato una ventina di volte all’anno, ma in passato le navi Bahri hanno scalato anche Livorno, Marghera e Trieste. La rotta prevede sempre un solo scalo – italiano – nel Med Nord, prima di Alessandria in Egitto.
La rotta eastbound parte sempre da Houston (Texas), i carichi pesanti sono attrezzature per l’industria petrolifera e militari (elicotteri, blindati leggeri, camion, elettronica), le stive si riempiono in 5-6 porti USA, quelli fissi sono Savannah, Wilmington, Baltimore e, prima della traversata atlantica, Saint John in Canada. A rotazione si aggiungono i due terminali militari di Charleston e Sunny Point, tuttavia come sappiamo il sistema logistico militare americano si serve di routine dei porti commerciali.
In aprile/maggio la «Bahri Yanbu» integrò la sua schedule anche con 4 porti nordeuropei (Bremerhaven, Anversa, Tilbury, Le Havre) notoriamente impegnati nel militare, e sappiamo per certo che ha caricato 6 container di munizioni ad Anversa.
La supply chain militare gestita da Bahri è possente, costante nel tempo (da almeno cinque anni) anche se soggetta a fasi alterne (com’è tipico delle commesse statali), si alimenta con l’export di tre dei maggiori distretti dell’industria Aerospazio/Difesa (Texas, Georgia, New England), che è il solo settore in attivo della bilancia commerciale americana.
Chiudere il cerchio: petrolio, armi, guerre, migrazioni
Siamo al cuore del sistema militare-industriale mondiale. Supply chain di questo tipo ne sono la spina dorsale.
Alla base il petrolio, energia-potere da cui dipende gran parte del benessere e dei consumi occidentali. Negli ultimi dieci anni gli USA hanno quasi dimezzato le importazioni grazie alla
propria produzione da scisti bituminosi, tecnica che richiede però alti prezzi del barile. Attorechiave del mercato petrolifero, l’Arabia Saudita opera sul doppio fronte per mantenere alti i prezzi mondiali e meritarsi livelli costanti dell’export verso gli Stati Uniti. L’immenso trasferimento monetario che ne origina beneficia una stretta oligarchia saudita, la cui solidità di potere è contrattata a Washington. Tra i “ritorni” pagati in petrodollari, al primo posto le tecnologie militari che tengono in piedi da una parte l’industria della difesa USA e degli alleati tradizionali degli USA, e dall’altra la tribù che Ibn Saʿūd ha introdotto tra i potenti della Terra.
Per diversi motivi, gli attori deboli del mercato del petrolio devono subire la linea arabo-americana. Dal lato dei produttori non c’è difesa con l’OPEC debole, e per chi non sta al gioco ci sono sanzioni di modulata gravità: Venezuela, Russia, Libia e il super-nemico Iran. Dal lato dei consumatori, il prezzo alto del petrolio taglia consumi e welfare di UE e Cina, per altro costretti ad “acquistare” l’inflazione del dollaro quali esportatori globali negli USA.
Nello stesso disegno stanno le guerre più devastanti degli ultimi anni (Yemen, Libia, Sudan, nonché la complicata operazione in Siria) e il formarsi sul terreno di una comunità di interessi tra Russia, Cina e Iran.
Infine, queste guerre causano direttamente le ondate migratorie che stanno mettendo in ginocchio i sistemi politici nazionali in Europa, che a loro volta hanno infragilito – secondo i desiderata di Washigton – l’Unione Europea, l’unica realizzazione politica del Novecento dichiaratamente pacifica. Ma soprattutto la leadership arabo-americana ha cancellato la speranza dello sviluppo economico nelle aree ad alta natalità e infimo reddito del mondo: unica speranza per le masse dei poveri è la cooptazione nel mondo dei ricchi, ovviamente alle loro condizioni e per pochi fortunati.
Per gli altri la risposta è il “sistema Gaza” (controllo e repressione dei ghetti) che gli israeliani stanno felicemente esportando come combat-tested.
Fare quadrato: cos’è lavorare nell’industria militare
Torniamo a Genova. Voce dissonante ma chiara nei giorni del blocco della «Yanbu» è stata quella di chi (il governatore Toti) ha ricordato che gran parte del sistema industriale che ancora sopravvive in Liguria è a vocazione militare.
Andiamo in Sardegna, a Domusnovas. La prima conseguenza dell’annuncio (rimarrà tale?) governativo del blocco dell’export verso l’Arabia Saudita è stata il comunicato della direzione della RWM Italia, che accenna a «modifiche dei programmi di produzione» dell’azienda. Si sa di cosa si tratta: sospese le nuove assunzioni, non rinnovati i contratti a tempo, i lavoratori temono giustamente che a settembre scatteranno anche i licenziamenti.
Colpisce, però, ciò che riportano i giornali sardi, attribuendolo ai lavoratori: «una decisione [quella del governo] che non porterà certo alla risoluzione del conflitto in Yemen». Più o meno quello che direbbe l’a.d. della RWM. Quasi lo stesso di ciò che hanno affermato i dirigenti della Teknel («la Guardia nazionale saudita userà i nostri prodotti solo per tutelare le vite dei cittadini in caso di calamità naturale») e i ministri di Macron («i cannoni francesi sono impiegati solo per difendere il territorio dell’Arabia Saudita»). I bresciani della Beretta direbbero anche: «Se non le fabbrichiamo noi, quelle armi gliele vende qualcun altro».
Quello dei posti di lavoro è un problema serio, non va sottovalutato. Sappiamo che si è messo al lavoro un “tavolo” di trattativa, a cui partecipa anche un rappresentante del Comitato riconversione RWM “per la pace e il lavoro sostenibile”. Però vogliamo – dal punto di vista di OPAL e di Rete Disarmo, che sono stati in prima fila nella campagna contro le bombe RWM – aggiungere qualcos’altro. La fabbricazione di armi, la partecipazione in un qualsiasi ruolo alle attività del complesso militare-industriale pone una domanda etica, circa le conseguenze di ciò che si contribuisce a fabbricare: «quanti morti farà la bomba che hai costruito tu, ora? E quante ne hai costruite oggi? E se puoi rispondere che forse non ucciderà, quanti uomini e donne e bambini hai contribuito a far fuggire dalle loro case e dai loro paesi per paura della tua bomba?».
Questi sono i profughi che i nostri “ministri di ferro” stanno respingendo in mare, che si aggiungono a quelli che chiedono di partecipare alla nostra ricchezza.
Ancorché insanguinati, quelli dell’industria della difesa (dove “difesa” è un eufemismo astorico, le industrie italiane lavorano quasi completamente per esportare) non sono posti di lavoro stabili.
Negli ultimi bilanci della RWM si sono previsti con anni di anticipo possibili stop alle autorizzazioni all’export, e si erano approntate contromisure per ridurre il danno, di flessibilità lavorativa e mediante «clausole contrattuali già inserite nei contratti d’approvvigionamento».
I posti di lavoro nell’industria della guerra dipendono dalle guerre in corso, anche da quelle che si conducono contro le guerre, pronunciando semplici ma pesantissimi “no”: «io no».
Una lezione di Brecht
In uno degli ultimi lavori pubblicati in vita – il titolo in italiano era L’abicì della guerra, 1955 – Bertolt Brecht concluse un ventennale lavoro di documentazione abbinato alla scrittura lirica, alla maniera greca. Ne risultò una serie di “doppie pagine”, in ciascuna a una fotografia ricavata dalla stampa dell’epoca (sulla storia della Germania, dal riarmo alla sconfitta del nazismo) si giustapponeva un epigramma di quattro versi, un “foto-epigramma” per opporsi a come la carta stampata usa le immagini per nascondere la verità.
Ebbene, una di quelle foto mostra Hitler che tiene «uno dei suoi grandi discorsi» di fronte a una platea di operai in una grande fabbrica di Berlino, dietro di lui degli enormi cannoni: «proprio dietro di lui, vedete il frutto delle vostre mani: grandi cannoni, muti, proprio puntati su di voi».
Era il 10 dicembre 1940, quella fabbrica era situata a Tegel, nella periferia berlinese. In precedenza fabbricava locomotive, poi Göring l’aveva nazionalizzata e riconvertita a fabbrica d’armi. Quegli operai lavoravano per la Rheinmetall-Borsig AG: Rheinmetall, proprio come Rheinmetall Waffe Munition, RWM.